Un racconto di un breve episodio di vita quotidiana, che ci porta indietro nel tempo. Le contrade e il
lavoro contadino, i prati e i boschi, l’allevamento e la produzione del formaggio nella casàra in centro ad Alvese (frazione di Nogarole) nella prima metà del Novecento…
Con una scrittura semplice ma allo stesso tempo ricca di poesia, impreziosita con qualche termine in lingua veneta, il maestro Bepi De Marzi e la moglie Cecilia Petrosino nella loro opera “Arciso di Alvese” (2000) narrano la vita di Arciso Mastrotto, saggio e sapiente contadino di Alvese che ha poi intrapreso un illuminato e coraggioso impegno nel mondo dell’imprenditoria conciaria della Valle del Chiampo, una realtà imprenditoriale leader nel mondo.
A passo normale, e a camminare liberi, in cinque minuti dai Mastrotti si arrivava in Alvese. Ma con il bigòllo in spalla e con le secchie colme, i passi erano quelli lenti della fatica e quelli corti della prudenza. E il tempo raddoppiava.
Arciso e Bortolo, alla casàra – subito lì a destra, sul fianco della chiesa – scendevano due volte al giorno dopo la mungitura: la mattina presto, uno; la sera, prima che facesse scuro, l’altro.
Poi ogni lunedì mattina, per quante sono le settimane dell’anno, i due fratelli si scambiavano i turni.
“Òcio!”, raccomandava la Beppa se li vedeva partire, preoccupata che cadessero mettendo un piede in fallo, che spandessero inciampando in un sasso, che scivolassero giù per il sentiero – quando d’inverno non era raro che ghiacciasse -.
Alla casàra, per onsegnare il latte, il più delle volte si faceva la fila. Dopo, indietro, ognuno si portava ‘l scòro per i maiali.
Il casàro ogni volta pesava preciso, e, solo dopo che sul libretto aveva ‘notato i trecentottanta litri stabiliti, toccava di fare il formaggio.
La famiglia che lo faceva quel giorno, si portava da casa la legna. Di burro e di formaggio, ogni famiglia teneva per sé quello che faceva di bisogno; il resto, che era la più parte, lo vendeva.
Anche la giassàra era in piazza, ma sull’altro fianco della chiesa, e riforniva di ghiaccio Alvese con tutte le contrade intorno.
Lì si conservava anche il burro, che la neve accumulata d’inverno manteneva fresco.
Se non nevicava – ma che gelasse l’acqua – si n’dava a turno al lago di Quargnenta.
Lì il casàro serviva di ghiaccio tre casarette: le due della Piana, dei Battistin e dei Marcantoni, e quella di Alvese. Chiedeva a ogni una un franco: con tre franchi al giorno era contento del mestiere e tirava ‘vanti a vivere.
Con l’estate, e fino al nuovo inverno, si scendeva per ghiaccio a San Pietro Mussolino, da Iseo botteghiero – a lui lo portava da Arzignano, sul carretto tirato dal musso, Bepi del Giasso che aveva la fabbrica a San Rocco –; e sempre che fosse mattina buonora o sul tardi del giorno, perché il ghiaccio, anche a essere avvolto nei sacchi, anche coprirlo con la paglia, col caldo facilmente si scioglieva.
La fatica era al ritorno, sempre troppo carichi su per un sentiero tutto pontaróso.
C’era un trucco, che i vecchi dal tempo antico tramandavano ai giovani, per conservare neve e ghiaccio più a lungo nella giassàra: ricoprirli con un fitto strato di foglie di faggio: per fare la fagàra bastava andarle a cercare nei boschi: per terra d’autunno sui Faldi ce n’erano alquante.
ARCISO DI ALVESE (2000), pag. 54-55
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